Carcere recupero o distruzione? Riparazione
Chi sbaglia paga è vero, ma la pena deve rispettare la dignità di ognuno e di ciascuno, perché rendere chi sconta la propria pena un disperato, significa alzare in percentuale la recidiva, nonché privare la società della dovuta sicurezza e prevenzione.
Nel proclamare questo Giubileo speciale della Misericordia, Papa Francesco ha interloquito anche sul carcere ormai ridotto a un mero contenitore di numeri, di cose, di oggetti, che imprigiona e abbrutisce.
Di rieducazione, infatti, c’è traccia solamente in qualche operatore ( debbo dire professionalmente avanti, senza mancare di quella umanità che mai dovrebbe venire meno) per’altro avvilito e in sottonumero.
Tanto meno, il Papa, disattende le vittime del reato: i feriti e gli offesi da quei crimini, gli innocenti, quelli che spesso rimangono al palo, anch’essi disperati.
Tuttavia il detenuto è una “persona” che sconta la giusta pena, ma che, se aiutato convenientemente, potrebbe tentare di riparare al male perpetrato.
Rieducare e reinserire non dovrebbero essere soltanto termini astratti o, peggio, che sottolineano l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario rispetto al dettato costituzionale. Il punto importante è consentire un sistema carcerario consono alle aspettative della collettività, che arrabbiata e delusa lavora di pancia, proprio perché il carcere non funziona, non le leggi che invece ci sono, ma spesso non possono esser correttamente applicate.
Un carcere come quello attuale che di fatto vieta persino il sentirsi utili, responsabili, avere delle prospettive, figuriamoci riappropriarsi di vista prospettica, di un progetto, un percorso, una strada ove ricominciare a camminare non più di lato, non più con le spalle al muro, tant’è che al recluso manca persino il senso di questa ulteriore e arbitraria privazione.
La pena consiste nel privare della libertà, non è scaracco di urto alla speranza.
L’opinione pubblica ritiene che bloccare un detenuto nell’inazione alienante sia la fatica minore, in quanto costerebbe meno in tasse da onorare
Questo agire è fatale, perché quel detenuto non è in una situazione di attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, bensì, egli è fermo a un tempo bloccato, al momento del reato, a un passato riprodotto a tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile vivere senza futuro, come se delirare fosse identico a sperare.
La pena prima o poi ha un termine e sarà necessario esser consapevoli che poi ricomincia il viaggio. Ma come ricominciare? Riprendendo a deviare?
Del resto l’art. 27 della nostra Costituzione, declina che la pena consiste nel togliere la libertà, per aiutare la persona a riprendersi, fornendole strumenti di revisione critica per non tornare a delinquere.
Ogni riforma, anche quella carceraria, richiede non solo il coraggio di pensare in grande e di sperimentare vie nuove, ma anche un impegno costante nel realizzare questa sorta di utopia. Sappiamo bene, quant’è facile non guardare a quel che non succede nei meandri di un penitenziario, ancora più comodo non accollarsi troppi grattacapi per chi ha sbagliato e paga giustamente il fio.
Tranne poi scandalizzarsi quando molti di questi soggetti, una volta ritornati in libertà, tornano a commettere gli identici reati, creando nuova insicurezza.
Allora si auspica inasprimento delle pene, carcere duro e quant’altro, con l’unico risultato di nascondere la verità: quella che fa male, perché indica la nostra corresponsabilità, almeno quella di un silenzio connivente, di fronte ai guasti dell’attuale sistema penitenziario, che moltiplica vittime e carnefici.
Se vogliamo che la criminalità diminuisca, bisogna riflettere tutti insieme sul che fare per ridurre l’attuale scompenso tra punizione e recupero, attuando una collaborazione partecipata e attiva.
Memori che il delitto è anche una malattia sociale e, come tale, necessita più di un risanamento che di un’accentuata punizione.
Occorre fare prevenzione preziosa, affinché chi si troverà a varcare il portone blindato di una galera a pena scontata, non abbia a ragionare come un adolescente: eccomi libertà, adesso posso ritornare a fare quello che voglio.
Un uomo infantilizzato a puntino è proprio come un adolescente irresponsabile.
E’ urgente chiederci se questo carcere ha un suo scopo e una sua utilità davvero condivise, soprattutto domandarci se dalle sue fauci a fine pena, perché prima o poi la pena finisce, escono persone migliori di quando sono entrate.
Ringrazio Papa Francesco ( fratello lupo ) per averci costretti a ritornare su questi temi, che pigrizia o malafede vorrebbero accantonare.
Nel proclamare questo Giubileo speciale della Misericordia, Papa Francesco ha interloquito anche sul carcere ormai ridotto a un mero contenitore di numeri, di cose, di oggetti, che imprigiona e abbrutisce.
Di rieducazione, infatti, c’è traccia solamente in qualche operatore ( debbo dire professionalmente avanti, senza mancare di quella umanità che mai dovrebbe venire meno) per’altro avvilito e in sottonumero.
Tanto meno, il Papa, disattende le vittime del reato: i feriti e gli offesi da quei crimini, gli innocenti, quelli che spesso rimangono al palo, anch’essi disperati.
Tuttavia il detenuto è una “persona” che sconta la giusta pena, ma che, se aiutato convenientemente, potrebbe tentare di riparare al male perpetrato.
Rieducare e reinserire non dovrebbero essere soltanto termini astratti o, peggio, che sottolineano l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario rispetto al dettato costituzionale. Il punto importante è consentire un sistema carcerario consono alle aspettative della collettività, che arrabbiata e delusa lavora di pancia, proprio perché il carcere non funziona, non le leggi che invece ci sono, ma spesso non possono esser correttamente applicate.
Un carcere come quello attuale che di fatto vieta persino il sentirsi utili, responsabili, avere delle prospettive, figuriamoci riappropriarsi di vista prospettica, di un progetto, un percorso, una strada ove ricominciare a camminare non più di lato, non più con le spalle al muro, tant’è che al recluso manca persino il senso di questa ulteriore e arbitraria privazione.
La pena consiste nel privare della libertà, non è scaracco di urto alla speranza.
L’opinione pubblica ritiene che bloccare un detenuto nell’inazione alienante sia la fatica minore, in quanto costerebbe meno in tasse da onorare
Questo agire è fatale, perché quel detenuto non è in una situazione di attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, bensì, egli è fermo a un tempo bloccato, al momento del reato, a un passato riprodotto a tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile vivere senza futuro, come se delirare fosse identico a sperare.
La pena prima o poi ha un termine e sarà necessario esser consapevoli che poi ricomincia il viaggio. Ma come ricominciare? Riprendendo a deviare?
Del resto l’art. 27 della nostra Costituzione, declina che la pena consiste nel togliere la libertà, per aiutare la persona a riprendersi, fornendole strumenti di revisione critica per non tornare a delinquere.
Ogni riforma, anche quella carceraria, richiede non solo il coraggio di pensare in grande e di sperimentare vie nuove, ma anche un impegno costante nel realizzare questa sorta di utopia. Sappiamo bene, quant’è facile non guardare a quel che non succede nei meandri di un penitenziario, ancora più comodo non accollarsi troppi grattacapi per chi ha sbagliato e paga giustamente il fio.
Tranne poi scandalizzarsi quando molti di questi soggetti, una volta ritornati in libertà, tornano a commettere gli identici reati, creando nuova insicurezza.
Allora si auspica inasprimento delle pene, carcere duro e quant’altro, con l’unico risultato di nascondere la verità: quella che fa male, perché indica la nostra corresponsabilità, almeno quella di un silenzio connivente, di fronte ai guasti dell’attuale sistema penitenziario, che moltiplica vittime e carnefici.
Se vogliamo che la criminalità diminuisca, bisogna riflettere tutti insieme sul che fare per ridurre l’attuale scompenso tra punizione e recupero, attuando una collaborazione partecipata e attiva.
Memori che il delitto è anche una malattia sociale e, come tale, necessita più di un risanamento che di un’accentuata punizione.
Occorre fare prevenzione preziosa, affinché chi si troverà a varcare il portone blindato di una galera a pena scontata, non abbia a ragionare come un adolescente: eccomi libertà, adesso posso ritornare a fare quello che voglio.
Un uomo infantilizzato a puntino è proprio come un adolescente irresponsabile.
E’ urgente chiederci se questo carcere ha un suo scopo e una sua utilità davvero condivise, soprattutto domandarci se dalle sue fauci a fine pena, perché prima o poi la pena finisce, escono persone migliori di quando sono entrate.
Ringrazio Papa Francesco ( fratello lupo ) per averci costretti a ritornare su questi temi, che pigrizia o malafede vorrebbero accantonare.
Commenti
Posta un commento