Nel nome del popolo italiano. Carcere, vittime e costituzione

Me ne stavo disteso in piscina rilassato e tranquillo, acqua blu, un cielo ribaltato ai miei piedi.
Una giornata di sole e di riposo domenicale, ci voleva proprio, un bisogno feroce di staccare la spina, la necessità di rimanere in scia a quel dipinto tra le dita.
A pochi passi dal mio lettino, una coppia con qualche anno adagiato nei capelli, stanno parlottando con una loro conoscente incontrata casualmente pochi istanti prima.
Le parole sono pronunciate con perentorietà, nonostante gli schiamazzi intorno impossibile non farci caso, le voci esprimono consapevolezza di chi sa quel che sta dicendo, si presume partorite dalla conoscenza del tema in oggetto.
“Hai sentito che hanno scarcerato quello? Tre anni ed è già  fuori, è ospite in quella comunità da quel prete famoso. Proprio vero, in galera non ci sta più nessuno, tutti fuori ‘sti buontemponi, a fare quel che facevano prima, come quell’altro amichetto prima di lui. Non c’è niente da fare questi non cambiano mai, ce l’hanno nel Dna l’irrefrenabile desiderio a reiterare i reati.
In che paese viviamo, non ci sono leggi, norme, regole, ognuno fa e disfa come meglio crede, tanto non c’è pena certa, non c’è castigo, non c’è sanzione, la pena retributiva è soltanto una mera utopia”.
Pochi attimi e la signora si congeda mentre la coppia di amici ritorna serenamente ad abbronzarsi.
Lì per lì ho sorriso sotto i baffi, mentre la mia compagna con gli occhi chiusi e il sole ben calcato sul viso, non ha colto una sola parola della chiacchierata da poco conclusa.
Un malessere sottile mi attraversa la testa, il petto, la pancia, come a volermi significare che non c’è un bel niente da ridere, anzi, permane discutibile il mio silenzio, somigliante a una sorta di comoda ritirata.
Per tutto il pomeriggio ho pensato a quelle affermazioni, come a volte l’informazione sia ammorbata a tal punto da fare ammalare di indifferenza il cittadino comune, attraverso una vera e propria inondazione di notizie e accadimenti spesso comunicati con lo strumento dell’appropriazione indebita, costringendo la verità a piegarsi al danno minore.
Eppure il carcere non è quello raccontato con la tecnica del bar sport, è piuttosto uno scafo affondato dall’ingiustizia, uno spazio scomposto dai tanti vuoti a perdere, e come traspare evidente dalle affermazioni di quei  villeggianti,  è percepito come una sorta di scivolata intellettuale.
Le carceri italiane sono sovraffollate di cose, di numeri, di oggetti, di corpi e storie accatastate ma rese inesistenti da colpevoli che non debbono assolutamente fare comunione con alcun innocente.
Chissà se sarà davvero così.
Ho ascoltato, sono rimasto muto come un pesce, con un sorriso da ebete sulle labbra, invece avrei dovuto intervenire, tentare di dire a quelle persone, che in carcere ci si va e come, soprattutto quelli che si credono i più furbi, in carcere si paga il dazio e come, fino in fondo, anche per quarant’anni checché se ne dica bellamente il contrario, una, due, tre, condanne, una sopra all’altra, moltiplicate all’infinito, più in là della stessa condanna erogata dal Giudice, dal Tribunale, dal popolo Italiano.
A volte il carcere ti seppellisce, ti annienta, ti devasta così profondamente da diventare quel dato statistico che fa di te non più soltanto un detenuto, ma un vero e proprio malato, spesso terminale, ma questo non bisogna dirlo.
Le persone non cambiano mai?
Sul carcere pregiudizi e spallucce più o meno pilotate da sempre hanno fatto fallire rinnovamento e ideale rieducativo.
Ugualmente gli uomini cambiano “nonostante” questo carcere capovolto negli scopi e nelle sue utilità, sarebbe bene che la collettività guardasse con occhi e sguardi nuovi a cosa non accade mai in quelle celle, quando per le legge, per norma, per quella Costituzione così tanto sbandierata, dovrebbe accadere, non per un atto puramente pietistico, più semplicemente per un dovere che sta a diritto di ogni tutela e interesse collettivo, in quella giustizia giusta che sta innanzitutto dalla parte delle vittime ma proprio per questo non abbandona i rei.
Come ho già detto in passato: una comunità è vera quando aperta allo scambio relazionale e delle idee, perché a volte si ha la sensazione di non avere nulla da dare che già non ci sia.
Tranne che la voglia e la volontà di crescere insieme.

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