Caro Presidente - articolo sul carcere che uccide e non serve
Leggo di tante
menti alte che offrono il fianco a ogni causa nobile e giusta, quando c’è di
mezzo il carcere, penso che occorra avere rispetto per le vittime del reato, ma
anche per il cittadino detenuto.
Indipendentemente
dalle strumentalizzazioni, dalle speculazioni, dalle pance bene pizzicate,
questa marmellata di parole e pronunciamenti, non è di oggi, né di ieri, ma
dell’altro ieri.
Allora perché un
Governo dovrebbe accettare un’eredità imposta e non condivisa? Perché dovrebbe
sopportare un nodo storico che non le appartiene, legando a propria volta una zavorra che la sua antitesi politica non
ha voluto impegnarsi a sciogliere.
Di certo si potrà
obiettare che impedimenti di ordine tecnico e giuridico hanno fatto si che tale
argomento restasse a mezz’aria. Sta di fatto che ora il fardello è rimpallato a
destra, a sinistra, di volta in volta rinculando senza alcun gioco di sponda.
Ecco perchè Le
scrivo caro Presidente, vorrei dirLe che davvero gli uomini cambiano, perché
davvero l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna: nonostante il
carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e
infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura.
In questa condanna
alla condanna, ci sono attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto,
e proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di
un’autoliberazione possibile e non più prorogabile.
La vita, anche
all’interno di una prigione, può riservare incontri con te stesso e con gli
altri, che disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni unidimensionali,
gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, i
dis-valori di un tempo si accasciano nei valori che sono venuti avanti.
Allora l’uomo che
convive con la propria pena, coglie il senso di ciò che si porta dentro, il
peso del dramma, quel bagaglio personale come non è possibile immaginare.
Venti, trenta,
quarant’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo
invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità
scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, unicamente insieme agli altri.
Caro Presidente,
chi sbaglia e paga ( assai meglio sarebbe ripara ), il suo debito con la
collettività con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un
lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico.
Non c’è più l’uomo sconosciuto a se stesso, ma qualcuno che tenta di
riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra
una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, quella
società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita,
opportunità di riscatto e di riconciliazione.
Lei ha parlato con
lo sguardo in alto del fallimento e dell’ingiustizia in cui versa il carcere
italiano, ritengo sia stato un atto doveroso il Suo, che non Le porterà voti o
ulteriori consensi, un atto coraggioso
oltre che giusto, soprattutto per la ricerca ostinata di una Giustizia giusta
perchè equa, che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto
di debolezza.
Penso ai tanti
uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie
anonime, blindate, dimenticate.
Non esiste
amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in
avanti utopistici, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere
non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle
miserie che ci portiamo addosso.
Caro Presidente, in
conclusione che dirLe ancora, se non che quando il carcere è allo stremo fino
al punto di uccidere, è un carcere senza scopo nè utilità, forse c’è davvero
bisogno di cambiarlo, non cancellarlo, ma neppure mantenerlo così com’è.
Cè urgenza e
necessità di un nuovo percorso penitenziario che sappia finalmente scegliere
fra tanti dubbi, un progetto significativo su cui giocarsi un pezzo di vita,
per il bene di tutti, società libera e cittadini detenuti.
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