Suicidi e sconfitte sociali
Articolo sul carcere che ancora non c'è
In una settimana due persone
hanno tentato di ammazzarsi, due detenuti dello stesso penitenziario.
Tra tanti che riescono nell’intento di farla finita, in
questi due accadimenti non è andata così, nel primo caso la prontezza di intervento
degli Agenti di Polizia Penitenziaria ha consentito di arrivare per tempo, il detenuto è in fin di vita, ma ancora vivo.
Nel secondo caso la prontezza di riflessi dei compagni di cella hanno
letteralmente sradicato dal buco nero più profondo il compagno dai passi
perduti.
Due vite per fare una sola parola, predestinati, numeri di
un contenitore tritatutto, anche la disperazione più disperante incontra la via
più breve per non riuscire a sopportare l’irraccontabile.
E’ già epitaffio per un carcere così ridotto, miserabile e
disumano, c’è urgenza di apostrofare la riflessione, innescare la più piccola
provocazione per smetterla con gli omissis sulle responsabilità che non ci sono
mai, con le posture scandalizzate di una società in preda al panico dialettico
e comportamentale.
Come se fare gli indifferenti, i vendicativi a oltranza, i
giustizialisti all’ennesima potenza, avesse il potere di rendere più mansueti
gli uomini e le donne detenute, ponesse argine alle conseguenze drammatiche
della recidiva, nell’intento di inquadrare in una identica civicità spicchi di
umanità allo sbando, delinquenti malati e mai curati, malviventi veri e
malviventi inventati, trattati nello stesso modo, una popolazione detenuta
composta nella stragrande maggioranza da miserabilità, oltre a quella larga
fetta di popolazione cosiddetta libera, ma inchiodata al non fare, e quindi
nella più che prevedibile commissione di reati.
In questa cartina tornasole dai riflessi opacizzati dalle
informazioni, comunicazioni, dati, non sempre esposti correttamente, perché
esplicitati a seconda del tornaconto personale, c’è a fare da ponte la
richiesta di una giustizia che tuteli le persone oneste, ma che garantisca
equilibrio e comprensione umana verso chi sconta dignitosamente la propria carcerazione.
Giustizia giusta non sta a vendetta, peggio, a
indifferenza di riordino, neppure è sinonimo di pena certa, quando la pena è un
percorso a ostacoli, malamente accidentato, dove è sempre più obbligante morire
di dipendenza, di patologia, di malattia.
La giustizia è un valore alto che cresce dentro una
condizione individuale e collettiva che sa schierarsi dalla parte di chi è la
vittima, di chi è innocente, di chi
soffre inascoltato senza meritarlo, la Giustizia è tale perché
non ha paura, non fa passi indietro nei riguardi di chi non vede riconosciuti i
diritti fondamentali, di chi è costretto a sopravvivere, anche di chi ha
sbagliato e non ha la possibilità di riparare, di diventare una persona
migliore.
Ci si impicca, ci si uccide, quando la pena si traveste e
muta in un eccesso di condanna, non c’è solamente la restrizione della libertà
personale, ma una vera e propria mancanza di diritto, di corretta
interpretazione della misura incapacitante, di non cura della salute e della
propria dignità personale.
Il non rispetto di queste “prerogative carcerarie”,
deprivano lo scopo e l’utilità sociale della pena stessa, che non può esser
considerata una punizione o un castigo se non ricompone la solidarietà
collettiva, attraverso lo strumento della riparazione che sta nel Dna di ogni
possibile giustizia, per ridare autorevolezza e senso al carcere, che punisce
il crimine ma rispetta l’uomo, pur sempre cittadino, detenuto.
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