Ortopedia penitenziaria – di Vincenzo Andraous
Articolo sul carcere
La conferenza sul carcere è terminata da qualche giorno, qualcosa mi rimanda a quanto abbiamo ascoltato, detto e risposto. Qualcosa sta di traverso, come se l’incontro svolto poggiasse le gambe su un tavolo tarlato, su un interrogativo che scava.
Dialogare sul valore della pena, della legalità, della giustizia, nasce da una esigenza profonda di sapere, di conoscere, per contribuire al bene comune, oppure è il risultato di una curiosità, dettata da una morbosa disattenzione. per fare qualcosa di diverso, un rumore, un ritmo, una specie di crociera da spendere per passare in rassegna le isole del castigo, negli spazi dove si è obbligati a pagare il proprio debito con la società.
La sensazione è che il pubblico-contribuente non conosca il carcere, erroneamente percepito come terra di nessuno, mentre apprezza quello rappresentato dai films o dai fumetti, delle storie inventate.
Sovraffollamento irraccontabile, carenza endemica di personale, investimenti al lumicino, non fanno altro che rendere teatrale la sofferenza che transita dentro le celle di un penitenziario, la tragedia che incombe sui troppi morti che escono con le gambe in avanti, una cartellonistica suicidiaria che oramai travalica perfino il più alto dei muri di cinta.
Non c’è più neppure sufficiente coerenza a denominare i detenuti per ciò che sono diventati: numeri in quantità industriale, da trattare senza troppi rimorsi di coscienza.
C’è chi interviene per sostenere la cultura come badante di una “pena” ammalata, chi invoca il lavoro come unico strumento di riordino, chi confida nell’importanza di incontri autorevoli per fornire supporto a un vero e proprio ripensamento culturale.
Siamo in tanti a spendere parole, significati, contenuti, a indicare le molte strade da percorrere, siamo in pochi a individuare le possibili terze vie da intraprendere, in ogni caso partendo dal rispetto di una doverosa esigenza di giustizia di chi è vittima, e scoprendo nuove opportunità di riscatto e riparazione.
Bisogna osservarlo bene il carcere, se intendiamo svolgere una analisi corretta che non ci faccia perdere contatto con la sostanza delle cose, con gli strumenti occorrenti per arginare il perseverare del suo meccanismo perverso.
Detenuti tossicodipendenti commettono reati per farsi, per comprare, per vendere, non si tratta di un vizio, è gia malattia, forse potrebbe essere buona cosa la presa in carico in comunità dai requisiti a registro, dove spesso l’accoglienza è cura e salvezza di vita.
Detenuti extracomunitari, ultimi tra gli ultimi, troppi e accatastati l’uno sull’altro, in attesa di un altro niente che non sta a buona vita domani, forse occorre più autorevolezza nel protocollare intese umanitarie che risultino davvero condivise anche nei paesi di origine.
Detenuti autoctoni, microcriminalità, eccesso di reati che fanno emergenza, creano urto, fastidio e rabbia, un bacino-utenza da ripensare: dove collocare, adibire a lavori socialmente utili, dentro una pena che risulti finalmente un esercizio di responsabilità.
Sul carcere mille cose si tolgono dove già poco c’è, il cosiddetto fiore all’occhiello non basta più a coprire quanto è disperante lo spettacolo del disonore che non si vuole fare vedere, nella più disumana indifferenza.
Amnistia no, ma i tribunali rimangono oppressi e impantanati da milioni di carte usurate dal tempo e finanche destinate alla prescrizione, camere di sicurezza elette a domicilio, detenzioni domiciliari che poco servono, c’è in atto uno svuotamento delle idee, al punto che non c’è neppure un “giusto” a sottolineare la condizione in cui sopravvive gran parte della comunità ristretta: non c’è solamente delinquenza, ma una quantità corposa di persone espansa su tutto il territorio, che potrebbero essere diagnosticate doppia diagnosi, patologie da disturbi della personalità border-line, un disagio psichico per niente difficile da appurare, dove la problematica principale non sta nell’uso e nell’abuso di sostanze, nei reati, nella trasgressione che è già devianza, ma in un vero e proprio schianto mentale tra start adrenalinico e latitanza emozionale dalle conseguenze imprevedibili.
Indipendentemente dalle varie e bizzarre “ortopedie penitenziarie” intese a fare camminare correttamente dentro percorsi socialmente condivisi ( cosa ci sarà mai di socialmente condivisibile in un carcere che ancora non c’è, e peggio, non si riappropria del suo ruolo e della sua funzione ) occorre confermare quanto davvero fa sicurezza, salvaguardia della collettività, forse è ora di ritornare a pensare a un carcere che “è” società, perché ne fa parte e disegna legalità, possiede giustizia sufficiente a creare momenti di riparazione.
Un carcere che ci dice chi entra nelle sue viscere, ma soprattutto chi, non “cosa” esce: è urgente impegnarsi per un carcere diverso, per auspicare il ritorno nella società di persone migliori, questo è quello che si dice un preciso “interesse collettivo”.
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